Ascoltare per includere. Giovani stranieri, l’ascolto della rabbia per una possibilità di futuro

Discriminazioni

31/10/2025

Ascoltare la rabbia dei giovani stranieri significa riconoscere un bisogno di giustizia, di appartenenza e di futuro. Troppo spesso chi arriva o cresce in Italia si scontra con diffidenza, discriminazioni e mancanza di opportunità. In occasione della Giornata regionale dell’ascolto, la visita al Ferrante Aporti di Torino e il percorso come tutrice volontaria di minori stranieri mi hanno ricordato che la vera sicurezza nasce dall’inclusione: dal sentirsi visti, ascoltati e accolti in una comunità che sceglie la cura al posto della paura.

L’8 ottobre su La Stampa è comparsa un’intervista della giornalista Chiara Comai a Franco Prina, docente di Sociologia giuridica e della devianza all’Università di Torino. Prina ha raccontato la rabbia dei giovani stranieri cresciuti in Italia ma ancora percepiti come “ospiti”. Una rabbia che nasce dal sentirsi respinti, esclusi, giudicati in partenza. Ha spiegato come molti ragazzi di origine straniera vivano un sentimento diffuso di ostilità, una sensazione di razzismo quotidiano, talvolta anche istituzionale, con controlli più frequenti, atteggiamenti di diffidenza e poca fiducia da parte delle istituzioni. Un clima che genera frustrazione e ribellione, come si è visto anche nelle periferie francesi.

Comprendere tutto questo — senza giustificare comportamenti violenti — significa riconoscere che dietro la rabbia c’è un bisogno di riconoscimento e di equità.
Molti giovani sentono di non avere le stesse opportunità degli altri, di essere esclusi a priori dai percorsi di istruzione, lavoro, partecipazione. E quando la società non offre spazio o futuro, qualcuno finisce per procurarsi con la forza ciò che non crede di poter ottenere diversamente.

Condivido pienamente questa analisi: non si può comprendere il disagio giovanile se lo si guarda solo come un problema di ordine pubblico. È anche — e forse soprattutto — una questione di ascolto, di fiducia e di appartenenza negata. Negli anni in cui ho lavorato in Francia, ad Avignone, come direttrice di un’associazione di Éducation Populaire, il tema dei giovani di seconda generazione era centrale. Tra il 2013 e il 2018 molti di loro si stavano radicalizzando per partire in Jihad, e l’allarme nazionale aveva spinto il Ministero della Giustizia a finanziare progetti di cittadinanza attiva e ascolto. Si era finalmente compreso che il problema non nasceva dal desiderio di radicalizzarsi, ma da un profondo bisogno di appartenenza. Un bisogno a cui lo Stato francese iniziava con grande ritardo a dare una risposta.

Vista l’importanza di questo tema, in occasione della Giornata regionale dell’ascolto, istituita di recente dal Consiglio regionale del Piemonte, come gruppo Alleanza Verdi e Sinistra abbiamo scelto di visitare l’Istituto penale minorile Ferrante Aporti di Torino: un luogo dove l’ascolto è più difficile, ma anche più necessario.

La legge che istituisce questa Giornata nasce per contrastare solitudine ed emarginazione e, grazie a un nostro emendamento, prevede l’inserimento di mediatrici e mediatori culturali nell’Osservatorio regionale sull’ascolto. È un passo importante per riconoscere che ascoltare davvero significa includere, anche chi vive barriere linguistiche e culturali.

Al Ferrante Aporti oggi ci sono 51 ragazzi detenuti, di cui solo dieci italiani. La maggior parte sono minori stranieri non accompagnati, spesso soli, senza una rete familiare, con alle spalle storie di migrazioni difficili, dipendenze e marginalità.
Durante la visita, la nuova direttrice pro tempore e la coordinatrice educativa ci hanno raccontato quanto pesi la mancanza di mediatori culturali strutturali all’interno del sistema carcerario: figure che oggi vengono inserite solo grazie a progetti temporanei.
Uno di questi, attivo proprio al Ferrante Aporti, prevede la presenza di un mediatore anche nei momenti informali – durante i pasti, il gioco, la quotidianità – per costruire relazioni di fiducia e ascolto autentico.

Molti ragazzi arrivano con i “codici della strada”, con un forte bisogno di appartenenza e grande difficoltà a riconoscere figure adulte di riferimento. In questo contesto, è centrale il ruolo dei tutori volontari, spesso le uniche persone che li incontrano e li seguono nel loro percorso educativo.
Sabato 25 ottobre ho terminato il corso regionale per nuovi tutori dei Minori Stranieri Non Accompagnati e ho ricevuto da poco notizia di aver superato l’esame finale, risultando idonea al ruolo di tutrice legale. Ho subito confermato al Tribunale dei minori la mia disponibilità all’assegnazione di un giovane non accompagnato, con l’obiettivo non solo di sbrigare insieme le pratiche burocratiche necessarie, ma di accompagnarlo, ascoltarlo, mostrargli che non è invisibile.

Come ricordato nell’articolo di Comai, se la società trasmette solo diffidenza e paura, raccoglierà rabbia e isolamento. Per questo credo che la vera sicurezza nasca dal benessere e dall’inclusione: dal sentirsi parte di una comunità che non volta le spalle, ma tende la mano.

Perché essere visti può davvero cambiare una vita.



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