Cosa ho imparato in Costa d’Avorio (e perché ci riguarda da vicino)

Discriminazioni

15/09/2025

Un ritorno in Costa d’Avorio dopo undici anni, vissuto attraverso gli occhi di chi parte e di chi resta. Un viaggio che non è solo spostamento, ma confronto con culture, quotidianità, fragilità e sogni. Tra comunità che accolgono, modelli di cura alternativi e lo sguardo che portiamo sui migranti anche qui, in Italia. Un racconto che intreccia emozioni e politica, identità e differenze, per capire davvero cosa significa convivenza.

Quest’estate, durante la chiusura del Consiglio regionale, sono stata in Costa d’Avorio per accompagnare un’amica al suo ritorno dopo undici anni. Lei ivoriana di origine, oggi italiana di cittadinanza con una nuova famiglia, tornava per la prima volta da moglie e madre. Ritornare insieme ha significato entrare subito nella vita quotidiana, nei cortili delle case, nei ritmi di chi è rimasto. Uno shock culturale e insieme un privilegio. Non c’è nulla di scontato: i gesti cambiano, i ruoli cambiano, perfino le regole del saluto o del pasto. Un’esperienza forte, che mi ha ricordato quella dell’anno scorso in Gambia, quando ho accompagnato Lamin, anche lui al suo primo ritorno. Ogni volta non è solo un viaggio, è attraversare confini di emozioni, identità, legami interrotti e ricostruiti.

Ho visto famiglie che vivono di poco e altre molto benestanti, professionisti che non lascerebbero mai il Paese e giovani che invece sognano l’Europa come unica alternativa. Chi torna dall’Italia o dalla Francia lo fa con rituali precisi, accolto come un eroe: i sacrifici trovano senso così. Ma questa narrazione alimenta il mito del “mondo migliore”, che spesso porta a scelte rischiose e dolorose.

Mi ha colpito la questione della salute mentale. In Italia, troppe persone fragili finiscono per strada o in carcere. A Bouaké, invece, ho visitato un centro che accoglie e accompagna i “folli erranti”, li fa vivere in comunità, li cura e li forma. Cercavo notizie di un amico ivoriano che a Cuneo non aveva trovato alcun sostegno ed era stato rimpatriato. Non l’ho trovato, ma ho trovato un modello diverso, che unisce cultura, cura e comunità. In Italia esistono già reti con queste esperienze, ma servono politiche vere per sostenerle.

La quotidianità che ho vissuto mi ha insegnato anche altro: qui la convivenza si regge sulla responsabilità reciproca, non sulle multe. Se qualcuno esagera, è la comunità a intervenire. Da noi prevale il divieto scritto, il regolamento. Due modi diversi di gestire i rapporti, che si

incontrano quando le persone arrivano qui, con i loro codici. Capirlo è fondamentale se vogliamo costruire convivenza e non solo chiedere “integrazione”.

A Grand-Bassam, ex capitale coloniale, ho visto palazzi imponenti ormai in rovina. Io li guardavo come patrimonio, come “esotico fascino decadente”. Ma lì, per molti, sono solo macerie di un passato ingombrante, che nessuno vuole più abitare. Allo stesso tempo, i luoghi “pittoreschi” che restano in piedi sono spesso gestiti da francesi. È stato un promemoria chiaro: ciò che noi consideriamo “patrimonio da salvare” non sempre corrisponde ai bisogni reali delle persone che ci vivono accanto.

Questo sguardo lo ritrovo anche qui, in Piemonte, quando parliamo di migranti. Li osserviamo con le nostre lenti, riducendoli a categorie utili alla nostra narrazione: poveri, irregolari, minacce, o al contrario eroi da premiare. Raramente ci interessa davvero la loro quotidianità, fatta di pratiche, abitudini, modi di vivere. Ci scandalizziamo se mangiano con le mani in un parco, se si siedono per terra, se parlano a voce alta. Sono gesti che in Costa d’Avorio fanno parte della normalità, ma che qui diventano stigma.

L’esotico, come scriveva Edward Said, racconta più di noi che dell’altro. E allo stesso modo il nostro sguardo sui migranti dice molto di come vogliamo “usarli” nella discussione pubblica: funzionali a confermare paure, o al contrario a rassicurarci con immagini positive. Ma quasi mai persone reali.

Da antropologa e da consigliera regionale porto a casa questo: se voglio capire la migrazione e proporre politiche efficaci devo partire anche da qui, da quello che ho visto. Investire sulla mediazione culturale, sulla salute mentale, su vere strategie di cooperazione internazionale non è un lusso, ma una necessità. La convivenza non si costruisce con gli slogan, ma con la capacità di riconoscere le differenze e di farne occasione di crescita comune.



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