In Italia esistono luoghi quasi invisibili, ma che segnano profondamente la vita di chi vi passa: i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Strutture che non sono carceri, ma che funzionano come tali, spesso senza diritti né tutele. Qui il tempo si ferma, le persone attendono senza certezze e le storie che emergono raccontano un sistema kafkiano, disumano e inefficace.
In Italia, anche se si sa poco, esistono delle strutture chiamate Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR). Sono luoghi in cui vengono rinchiuse persone straniere che non hanno un permesso di soggiorno regolare, in attesa di un possibile rimpatrio. Non si tratta di carceri: la detenzione è amministrativa, non penale. Ma i CPR funzionano di fatto come carceri, senza però le tutele garantite dal sistema penitenziario (nessun lavoro, attività, scuola, possibilità di cucinare e di fare esercizi fisici). Sono gestiti da enti privati, a fini di lucro, e le condizioni di vita al loro interno sono degradanti.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che questi luoghi rappresentano un rischio grave per la salute mentale e fisica. E i dati lo confermano: solo circa il 10% delle persone rinchiuse nei CPR viene effettivamente rimpatriato. Tutti gli altri, dopo settimane o mesi di privazione, vengono rilasciati nelle nostre città. Significa che i CPR non solo non risolvono nulla, ma producono persone degradate da quell’esperienza, traumatizzate, indebolite, arrabbiate. E questo non ha nulla a che fare con la sicurezza. Anzi, la mina alla base.

A rendere tutto ancora più assurdo c’è il fatto che nei CPR finiscono anche persone provenienti da Paesi con cui l’Italia non ha alcun accordo di rimpatrio. Autorità e governo sanno benissimo che non potranno mai essere effettivamente espulse, ma le trattengono lo stesso, fino a un massimo di 18 mesi, in condizioni inumane. Una detenzione inutile, che non porta a nulla se non a infliggere sofferenza e ad alimentare un circolo vizioso di marginalità.
Durante l’ultima ispezione al CPR di Torino, in corso Brunelleschi, insieme alla collega Ravinale, ci siamo trovate davanti a una realtà che definire kafkiana non è un’esagerazione. Abbiamo incontrato un ragazzo gambiano di 22 anni: ha una richiesta di asilo ancora pendente, quindi per legge dovrebbe uscire dal CPR. Invece è ancora lì, in attesa di un’udienza, essendo stato denunciato per resistenza a pubblico ufficiale: rischia fino a 7 anni di carcere, mentre si trova già in custodia dello Stato. Non solo: il giudice ha disposto per lui l’obbligo di firma, misura che non ha alcun senso per chi è già rinchiuso. Un cortocircuito giuridico che mostra l’assurdità del sistema.
Intorno a lui, tante altre persone nella stessa condizione: senza sapere perché sono trattenute, senza una prospettiva chiara sui tempi di uscita. È un meccanismo che produce disperazione, rabbia, autolesionismo. E che non ha alcun effetto pratico se non quello di logorare le persone e scaricare su di loro la propaganda politica del “rimpatrio”.
Le condizioni di salute sono un’altra emergenza. Per entrare serve la certificazione di idoneità rilasciata dall’ASL, ma è evidente che quel controllo è spesso solo un timbro. Dentro il CPR abbiamo trovato persone con gravi disturbi psichici, che peggiorano giorno dopo giorno. Il consumo di psicofarmaci è altissimo. Nonostante le direttive ministeriali stabiliscano che i soggetti vulnerabili non dovrebbero essere rinchiusi, nei fatti è esattamente quello che succede.
I numeri del CPR ne confermano l’inutilità: dalla riapertura a oggi sono passate nel CPR di Torino 354 persone. Solo 38 sono state rimpatriate. Il 10%. Tutti gli altri sono usciti di nuovo nelle nostre città, con traumi aggiunti da questa esperienza.

Di tutto questo ho parlato anche al festival Respiri a Melle, invitata da un gruppo di giovani attivi e insieme a Bruno Mellano, già Garante regionale delle persone private della libertà. Non con l’obiettivo di spaventare, ma di dare strumenti: seguire la rete No ai CPR, sostenere campagne come quella dei medici contro la prassi dell’“idoneità alla vita in comunità ristretta”. Proprio per mantenere alta l’attenzione sul tema è partito da Torino il tour italiano di Marco Cavallo, la grande scultura azzurra simbolo della lotta di Basaglia contro i manicomi, oggi al centro di una nuova campagna nazionale per denunciare le condizioni di salute mentale dentro i CPR e chiederne la chiusura. La verità è che nessun essere umano è idoneo a vivere nei CPR, perché sono luoghi patogeni per definizione.
Questa non è solo una questione di diritti, ma di sicurezza reale. Se solo il 10% viene rimpatriato, significa che il 90% delle persone torna nelle nostre città, più fragile e traumatizzato. Nessuno può chiamare tutto questo “politica di sicurezza”.
I CPR sono una macchina crudele e fallimentare. Costano, non funzionano, e distruggono vite. La soluzione è una sola: chiuderli, in tutta Italia. E fino ad allora, continuare a parlarne, informare, non lasciare che restino invisibili.
Io continuerò a monitorare il CPR di Torino con visite regolari e ho già in programma una visita anche al CPR di Macomer, in Sardegna. Per capire meglio come funziona questo sistema e avere ancora più strumenti per contrastarlo.
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