Dagli Stati Uniti all’Italia emerge un approccio che mette al centro la persona prima dell’etichetta amministrativa. Le prese di posizione dei sindaci di Chicago e New York sul linguaggio e sui diritti delle persone senza documenti si collegano al dibattito locale su residenza e accesso ai servizi. L’incontro promosso da AVS Cuneo ha ribadito che la residenza è un diritto e uno strumento di sicurezza collettiva, mostrando come procedure chiare, cooperazione tra uffici e mediazione riducano irregolarità e rafforzino le istituzioni.
In questi giorni sta circolando un video del sindaco di Chicago, Brandon Johnson, che interviene in modo molto netto sul linguaggio usato per descrivere le persone senza documenti. Johnson non intende utilizzare l’espressione “stranieri illegali”, perché non riflette la realtà delle persone e, soprattutto, perché la storia dimostra che ciò che è “legale” non è sempre giusto. Ricorda che per il suo popolo, per decenni, il termine legale era “schiavi”: un esempio che utilizza per mostrare quanto le parole possano essere cariche di violenza istituzionale.
Il messaggio è chiaro: si sta parlando di esseri umani, non di categorie astratte, e il linguaggio deve rispettare questa evidenza.

Un’impostazione simile si ritrova anche a New York, dove il neo eletto sindaco Zohran Mamdani ha diffuso un video informativo rivolto alle persone senza documenti per spiegare quali diritti hanno in caso di interventi dell’ICE e come tutelarsi legalmente. L’obiettivo è garantire che tutti conoscano le procedure e non vivano in un clima di incertezza permanente.
Questi due esempi americani mostrano un approccio che mette al centro la tutela della persona prima dell’etichetta amministrativa. E sono utili anche per leggere il nostro dibattito locale: quando si parla di facilitare le relazioni tra le persone straniere e le istituzioni, come per esempio introducendo la mediazione interculturale, o procedure differenziate, facilitate o accompagnate per l’accesso ai servizi offerti, non si tratta di “fare un favore agli stranieri”, ma di assicurare condizioni di accesso equo ai diritti di ogni persona che vive nel nostro paese, non solo da un punto di vista amministrativo e in termini di confini, ma anche umano, di relazione, di comunità.

Da questo punto di vista, il tema dei diritti individuali, si incontra con quello della sicurezza collettiva. Una comunità è più sicura quando le relazioni tra cittadini e istituzioni sono trasparenti, quando gli uffici funzionano, quando le persone possono accedere ai servizi essenziali. L’alternativa è una zona grigia che crea vulnerabilità sia per chi vi rimane intrappolato sia per il sistema che dovrebbe governarla.
È in questo quadro che si colloca l’incontro “Anagrafe e permessi di soggiorno: sinergie per facilitare l’accesso ai servizi”, organizzato nei giorni scorsi da AVS Cuneo come primo appuntamento di un ciclo dedicato alla sicurezza intesa come bene collettivo, prodotto anche dalla qualità delle relazioni tra le persone e le istituzioni del territorio.
L’incontro ha ribadito un principio giuridico chiaro ma non sempre applicato con coerenza: la residenza è un diritto previsto dalla normativa italiana. L’avvocata Alessia Pasero ha ricordato infatti che i Comuni hanno l’obbligo di iscrivere all’anagrafe chi vive stabilmente sul territorio, anche in presenza di condizioni abitative precarie.
Nella pratica quotidiana, però, continuano a emergere ostacoli: richieste documentali non previste dalla legge, tempi di attesa eccessivi, difficoltà tecniche. Elementi che, sommati, rischiano di trasformare un diritto in un percorso a ostacoli.
Le conseguenze non sono marginali. Come ha illustrato Elisa Gondolo, da anni impiegata nell’accoglienza e in particolare nel progetto punto.meet….senza residenza è impossibile attivare molti interventi sociali, con ricadute su cittadini italiani e stranieri. I Comuni, spesso alle prese con risorse limitate, talvolta adottano criteri restrittivi, ma non sempre ciò produce una gestione più efficiente né conforme alla legge.

Cuneo sta sperimentando un’impostazione basata sulla cooperazione tra uffici anagrafici, terzo settore e mediatori culturali: un accompagnamento mirato per chi non ha una dimora stabile e un orientamento specifico per chi arriva da altri Paesi. L’obiettivo è standardizzare le procedure e ridurre la discrezionalità. Piccoli passi che sembrano però andare nella direzione giusta.
Alla serata è stato presentato anche un esempio già operativo a Torino, illustrato dal consigliere Abdullahi Ahmed del Partito Democratico: un protocollo tra Comune e Questura, che prevede verifiche periodiche per l’interoperabilità dei dati, ha aperto alla possibilità di creare modalità uniformi di comunicazione. I risultati principali sono la riduzione degli errori, l’eliminazione delle cancellazioni improvvise e procedure più facilitate per i rinnovi dei documenti delle persone minorenni. Un modello replicabile, con costi contenuti e impatto amministrativo significativo.

L’importanza di questo scambio di informazioni, l’abbiamo appresa chiaramente nel cosros della campagna per il referendum sulla cittadinanza: se una persona perde la residenza per motivi burocratici, pur avendone i requisiti, può azzerare anni di requisiti già maturati e rallentare percorsi di integrazione perfettamente legittimi.
In sintesi, ciò che la serata ha messo in evidenza è che la residenza non è solo un dato amministrativo, ma uno strumento che permette alle istituzioni di funzionare meglio e alle persone di essere raggiungibili, tutelate e incluse nei servizi.
È un elemento essenziale di sicurezza, non in senso repressivo ma in senso organizzativo: riduce le zone di irregolarità amministrativa, previene errori, e rende più efficace il lavoro di tutti gli uffici coinvolti.
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