Le redazioni vuote dello sciopero dei giornalisti e l’irruzione nella sede de La Stampa sono due immagini che parlano della stessa crisi. Un giornalismo impoverito e precario, una rabbia giovanile che non trova ascolto, istituzioni e informazione percepite come lontane. Difendere la libertà di stampa e capire il disagio che attraversa una generazione non sono strade opposte, ma parti dello stesso compito democratico.
C’è un’immagine che continua a tornarmi in mente dello sciopero dei Giornalisti pubblicisti del 28 novembre scorso: le redazioni vuote, mentre giornalisti e giornaliste scioperavano per chiedere condizioni dignitose e un’informazione più libera.
E, poche ore dopo, un’altra immagine: l’irruzione nella sede de La Stampa di Torino da parte di un gruppo di manifestanti.

Due scene che sembrano opposte e che invece, in un modo paradossale, parlano della stessa cosa: della profonda crisi sistemica e identitaria che attraversa il Paese.
Il giornalismo italiano vive in una contraddizione costante. Da un lato difendiamo – giustamente – il diritto a un’informazione libera e plurale. Dall’altro sappiamo che questo diritto è ostacolato da un sistema editoriale concentrato, dove pochi grandi gruppi orientano narrazioni e priorità. E intanto migliaia di professionisti lavorano in condizioni precarie, con compensi che non riflettono il valore sociale del loro lavoro.
In questo scenario già fragile, l’irruzione in una redazione non è solo un gesto sbagliato: è un gesto che colpisce proprio chi già fatica ogni giorno a mantenere viva la funzione democratica dell’informazione, e che ha lasciato vuota la sua scrivania per manifestare contro tutto questo.
Ma sarebbe un errore archiviare tutto come semplice vandalismo.
Quella rabbia ha radici profonde, e lo vediamo da tempo. Ne ho scritto anche in un precedente articolo sulle seconde generazioni, che poi “seconde” non sono più: sono giovani adulti che cercano spazio, riconoscimento, ascolto.
C’è una parte della gioventù che non si sente vista, e che percepisce le istituzioni – e anche l’informazione – come mondi lontani, impermeabili.

Capire questa rabbia non significa giustificarne le espressioni violente.
La comprensione non è un alibi: è un punto di partenza.
Per quanto mi riguarda, la violenza resta una scorciatoia sterile, che lascia tutto esattamente com’è. La strada lunga – quella del dialogo, dell’ascolto, della ricostruzione di un patto sociale – è meno spettacolare, ma è l’unica che può produrre trasformazioni reali.
E forse è proprio questo il compito che ci tocca oggi: tenere insieme la difesa rigorosa della libertà di stampa con la capacità di guardare in faccia il disagio che attraversa una generazione intera.
Perché un’informazione credibile ha bisogno di condizioni di lavoro giuste; e una democrazia sana ha bisogno di giovani che non debbano urlare – o sfondare una porta – per far sentire la propria voce.
Iscriviti alla mia newsletter per ricevere aggiornamenti, articoli, restare sempre aggiornato sulle mie attività e magari anche qualche sorpresa Lasciami la tua email e ti scrivo solo quando ho qualcosa di interessante da dirti. Niente spam, promesso!