“Un po’ di benessere, altrimenti soffoco”: il valore politico della cura

Aree interne

04/10/2025

Essere invitata a incontri nei territori è una parte preziosa del mio lavoro: viaggiare nella regione, scoprire luoghi e persone restituisce energia e senso al fare politica. A Torre Pellice, con il Coordinamento Donne di Montagna, abbiamo parlato di benessere come atto politico. Non un lusso individuale, ma una visione collettiva che mette al centro la cura, la dignità del lavoro, la salute mentale e il legame con la natura. Perché “un po’ di benessere, altrimenti soffoco” non è solo un motto, ma un modo di pensare la politica come spazio di respiro comune.

Fare politica è un privilegio, ma a volte logorante. Ci sono giornate lunghe, ritmi serrati, momenti in cui la stanchezza, associata al senso di impotenza, pesa. Poi però arrivi in un luogo come Torre Pellice, ti accoglie una comunità viva, ti guardi intorno e ti rendi conto di quanto sia bella la nostra Regione. È in quei momenti che ritrovi il senso di ciò che fai: la possibilità di ascoltare, di imparare, di condividere. E di respirare, di nuovo.

A inizio ottobre sono stata invitata a Torre Pellice dal Coordinamento Donne di Montagna, per un incontro dal titolo “Donne e piacere”. Con Serena abbiamo parlato di benessere — non come concetto astratto, ma come atto politico, come forma di resistenza.

Siamo partite da una domanda semplice: perché fare politica?
Per me tutto nasce da un motto che porto con me da anni: “un po’ di possibile, altrimenti soffoco.” Possibile…una parola che parla di opportunità, possibilità aperte, di un immaginario alternativo e migliore. Perché se ci limitiamo a guardare la realtà così com’è — con le sue disuguaglianze, i muri che separano, le fatiche quotidiane che schiacciano — rischiamo davvero di perdere il respiro.

Anche fare politica, a volte, fa soffocare. È un mondo ancora molto maschile, con linguaggi e modalità che non sempre ti fanno sentire a tuo agio. Ma proprio per questo, immaginare un mondo diverso diventa un gesto politico. E questo gesto ho scelto di portarlo nelle istituzioni, e penso dovremmo tutti e tutti impegnarci per fare lo stesso. 

Oggi abbiamo scelto di declinare questo motto in un modo diverso: “un po’ di benessere, altrimenti soffoco.”

Il benessere non è un lusso, è una visione.
Fare politica pensando a un mondo in cui si può solo “vivacchiare” non basta. Abbiamo bisogno di pensare il benessere come un diritto collettivo, non come un premio individuale. 

L’antropologia mi ha insegnato che le società si riconoscono non solo da come producono, ma da come si prendono cura. D’altronde l’idea non è nuova. Secondo l’antropologa Margaret Mead, il primo segno di civiltà in una società antica non era un utensile o un’arma, ma un femore fratturato che aveva avuto il tempo di guarire. Nel mondo animale una gamba rotta significa la morte: non puoi più fuggire dai predatori, raggiungere l’acqua o procurarti cibo. Un femore risanato dimostra che qualcuno si è fermato, ha curato la ferita, ha messo in salvo la persona ferita e l’ha assistita fino alla guarigione. 

Condivido profondamente questa idea: la civiltà comincia quando una comunità sceglie di prendersi cura. Nei Paesi dove ho lavorato con Medici Senza Frontiere, il benessere era sempre condiviso: significava vivere bene insieme, in equilibrio con la comunità e con la natura. Da noi, invece, è diventato spesso una questione privata, un privilegio.

C’è un tratto che accomuna tutte le società di dominio: l’egoismo nel trattenere per sé il benessere. Le classi dominanti lo fanno da sempre, ma lo fanno anche i gruppi che si pongono in superiorità sugli altri. Pensiamo agli uomini e alle donne: per secoli il piacere femminile è stato pensato solo in funzione dell’uomo, mai come espressione di sé, mai come contributo alla comunità.

Mettere il benessere al centro del pensiero politico è un gesto radicale. Significa dire che il lavoro deve avere tempi di vita e dignità; che la cura non è un peso ma una responsabilità collettiva; che scuola e sanità sono spazi di benessere, non solo di servizio; che la salute mentale si costruisce insieme, dentro comunità che non isolano e non lasciano indietro nessuno.

Con Serena abbiamo parlato anche di donne e montagna, di quel bisogno di riconnettersi con la natura, di ritrovare un ritmo più umano e ciclico — quello che la società occidentale ha smarrito, ma che le donne, nel loro corpo e nella loro esperienza, continuano a custodire.

Lavorare con tante donne è bello proprio per questo: ci condividiamo come stiamo, ci sosteniamo, ci ricordiamo che la cura di sé e dell’altro non sono due cose separate.

E allora sì, “un po’ di benessere, altrimenti soffoco.”
Ma se lo costruiamo insieme, quel poco diventa moltissimo.



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